Intervista a Anna Segre. In occasione della Giornata internazionale della visibilità lesbica, che ricorre ogni 26 aprile, abbiamo fatto qualche domanda a Anna Segre, psicologa, psicoterapeuta e scrittrice.

D Il 26 aprile ricorre la giornata internazionale della visibilità lesbica. Eppure, storicamente parte della comunità arcobaleno ha considerato le donne lesbiche più “fortunate” degli uomini gay, in quanto oggetto di meno attenzioni e repressioni. Davvero, è così? Qual è il prezzo che hanno dovuto pagare le lesbiche?

R – Mi permetto di sorridere a questa domanda… la repressione delle lesbiche corrisponde a quelle delle femmine, per come la inquadrerei io. Hanno per caso le femmine una sessualità? Irrilevante. A partire dal pentateuco, dove l’omosessualità maschile è nominata come ‘abominio’ e quella femminile non compare. Questo perché la femmina la puoi costringere, mentre il maschio, se non ha un’erezione, non può avere rapporti sessuali. Perché il maschio ‘spreca il seme’, mentre la femmina non cambia la disponibilità degli ovuli. A cosa serve il piacere femminile? Sicuramente non alla procreazione. Perciò la femmina può intrattenersi con altre femmine finché non torna il maschio che la ingravida, con buona pace della collettività e delle istituzioni religiose. A tal punto non rileva la sessualità delle femmine e il loro piacere, che arriviamo a Himmler con le sue leggi atte a creare il grande Reich: triangoli rosa per i maschi, a stigmatizzare l’omosessualità, triangoli neri per le femmine, come antisociali. C’è proprio la negazione della sessualità. Le femmine, nel grande Reich, sono ‘stock di ovuli’. Il prezzo è la damnatio esistentiae. Non esisti, donna, non esisti, lesbica.

DLe donne lesbiche si trovano a subire – direi ontologicamente – una doppia discriminazione: quella riguardante il loro orientamento sessuale, certo, ma anche quella rispetto al genere, rispetto al fatto di essere donne. Cosa comporta quest’intersezione?

R – Come appunto dicevo nella prima risposta, essere lesbica distilla l’essere donna. Lesbica è donna alla enne. Discriminazione, diminutio, minimizzazione, diluizione sociale, accessi molto difficili o negati ai posti di potere, stipendi inferiori, misconoscimento dei meriti, carriera bloccata, damnatio memoriae. Diciamo che la damnatio è una conditio…

DQuali sono gli stereotipi più difficili da sradicare, ancora oggi, sulle donne lesbiche?

R – Maschio mancato. Donna di potere. Donna problematica. Non saresti lesbica, se avessi provato un vero uomo. Rovina famiglie. Mina vagante. Potenzialmente aggressiva. Perversa.

D – Una domanda un po’ provocatoria: il problema della visibilità lesbica è solo delle lesbiche? Sono le donne lesbiche a dover trovare uno spazio visibile nella società, o la responsabilità è condivisa? E quali sono le soluzioni?

R- Ecco, qui direi che c’è un cocktail di ragioni per cui la visibilità lesbica è imparagonabile a quella gay.

Primo: un’educazione millenaria a non farsi notare in quanto donne.

Secondo: un’abitudine sociale a considerare il contatto tra le donne naturale. Non è strano vedere due donne che si danno la mano o che si accompagnano alla toilette o che si sistemano vicendevolmente gli abiti. Non è strano che due donne collaborino per un lavoro casalingo o che si alleino rispetto a un gruppo di maschi. Lesbica scatta solo se le due si baciano pubblicamente o se c’è una qualche dichiarazione in merito.

Terzo: una repressione che non riguarda solo l’essere lesbiche, ma anche l’essere donne. In quanto donna, tu apprendi fin da piccola che potrai essere castrata nelle tue aspirazioni, bloccata nei tuoi movimenti, tu impari a temere l’intervento esterno. E perciò, quando ami qualcuna, la tieni ‘al sicuro’ da occhi indiscreti. Il percorso per la postura sociale a viso aperto è più indaginoso.

E per aggirare questo esito di ombra, di minorità anche politica, dobbiamo vincere queste cautele, millenarie quanto l’educazione; dobbiamo leggere, leggere molto di più; allearci con gay e trans e queer e ogni categoria divergente dal binario sociale previsto; essere attive politicamente, sentire la necessità di ‘far parte’; metterci, insomma, la faccia, senza timore del rogo.

D – In un’intervista da lei rilasciata per “il manifesto”, in occasione dell’uscita del suo libro di poesie “A corpo vivo”, ha dichiarato: “Non credo ci sia qualcosa più rischioso che amare”. Essere lesbica vuol dire amare una persona dello stesso stesso. Quali sono i rischi specifici a cui si espone non solo chi ama, ma chi ama una persona del suo stesso sesso?

R – Oh, la prima volta che capii il mio sentimento (era chiarissimo, nessuna ambiguità) mi spaventai moltissimo. Era il 1980 e l’omosessualità era tra le perversioni nel DSM, cioè era considerata malattia mentale. Amare una femmina era letteralmente proibito, malato, pericoloso.

Poi, dopo il 1984 fu tolta come perversione dal DSM, ma era (è) ancora pericoloso, perché non è che, se l’organizzazione mondiale della sanità toglie una voce dal catalogo delle malattie, la mentalità corrente cambia di botto.

Le persone vengono da me come pazienti oggi esprimendo la grande paura di rivelarsi ai genitori, ai datori di lavoro, agli amici. E la malattia ovviamente non è l’omosessualità, ma tutto ciò che come mentalità le gira attorno.

È pericoloso amare in assoluto perché ti espone nella polpa, nella carne, con un sentimento enorme, divino, indomabile, intendevo questo nell’ introduzione di A corpo vivo. Ma è anche pericoloso amare una persona dello stesso sesso perché la società è sì molto cambiata, si è evoluta, ma permangono convinzioni disfunzionali di base rispetto alla sessualità e all’affettività. Dovremmo dire omoaffettività…