Intervista a Vera Gheno

In questa intervista, la sociolinguista Vera Gheno ci parla di come riuscire a comunicare in un modo che sia rispettoso di tutte le individualità. Si tratta del cosiddetto “linguaggio ampio”.

D“Non si può più dire niente”: è questo che spesso viene affermato da chi preferisce non adattare il proprio modo di parlare alla persona (o al gruppo di persone) che si trova davanti. Ma è davvero così? Comunicare è diventato tanto impervio

R – Partiamo da un presupposto: il cervello tende al minimo sforzo e, specialmente dopo una certa età, alle persone non piace il cambiamento in generale. Queste sono due questioni che, secondo me, vanno tenute in considerazione ogni volta che si fanno delle riflessioni sul linguaggio, tanto più sul linguaggio ampio e su perché tante persone resistano all’idea del linguaggio ampio. Quindi, di per sé non ci piace fare fatica e amiamo gli automatismi, il cervello così risparmia: risparmia tempo e risparmia energia. Dunque, la reazione negativa di fronte alle questioni del linguaggio ampio è comprensibile.

Detto questo, “non si può dire niente” è una di quelle risposte semiautomatizzate che molte persone danno di fronte a qualcosa che non reputano desiderabile, ossia lo sforzo di parlare in maniera più attenta alla varietà. Gli esseri umani, in aggiunta, fanno molta fatica ad accorgersi di quello che dà noia alle altre persone: se una cosa non ti infastidisce direttamente, quel problema spesso è visto come inesistente. Quindi, considerato tutto questo e considerato il fatto che all’aumentare della varietà (cioè del bisogno di convivenza) la comunicazione diventa ancora più difficile – non è facile comunicare e lo è ancora meno in un contesto variegato, in cui ci sono tanti tipi di esseri umani –, non è vero che “non si può più dire nulla”: io penso che si possa continuare a dire tutto e che, casomai, qualsiasi riflessione sul linguaggio (anche ampio) abbia il compito di far pensare le persone alle conseguenze delle loro scelte linguistiche: se comunichi in questo modo hai delle conseguenze, ne hai altre se comunichi in quest’altro. Il linguaggio ampio aumenta il numero di opzioni a disposizione delle persone, ma senza affermare: “Quello che fai tu è in assoluto sbagliato e devi cambiarlo”, ma semplicemente dicendo: “Guarda, se fai così può accadere questo, se fai quello può accadere quest’altro”.

DNel tuo volume “Femminili singolari”, in particolare, sostieni come chiunque tra noi abbia la responsabilità di costruire e modellare la lingua e, con essa, il mondo che ci circonda, affinché si abbattano discriminazioni e disparità. In molti tuoi scritti e interviste hai parlato di quello che tu chiami “linguaggio ampio” e che comunemente viene definito “linguaggio inclusivo”. Di cosa si tratta nel concreto e perché preferisci non usare l’aggettivo “inclusivo” per denotarlo?

R – Penso che la società sia composta dalla somma dei suoi membri e quindi dei comportamenti individuali: per questo quello che ognuno e ognuna di noi fa nella propria vita – e anche con la lingua – è rilevante. A mio avviso, non si può continuare a pensare alla società come qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri; quindi, quando ci si lamenta della società, sotto sotto dovremmo chiederci: “Ma io che cosa faccio per cercare di cambiarla o renderla più vivibile o migliore di com’è?” La società ci riguarda, le questioni della società ci riguardano e ci riguardano anche le questioni linguistiche: nessuno e nessuna è irrilevante nei processi di co-costruzione della lingua e, di conseguenza, del mondo. Perché, come diceva Michela Murgia alla fine del libro “Stai Zitta”, il modo in cui chiamiamo le cose finisce per essere il modo in cui trattiamo le cose.

Rispetto alla seconda parte della domanda, io parlo di “linguaggio ampio” (e non “inclusivo”) seguendo la lezione di Fabrizio Acanfora, che afferma che non dovremmo più parlare di “inclusione”, perché il termine “inclusione” continua a presumere che ci siano persone che includono e persone che vengono incluse: è un concetto, di fatto, tutto centrato sui comportamenti delle persone che includono e non ci dice nulla dei desideri o della volontà delle persone che vengono incluse. L’inclusone, cioè, parte dal presupposto che gli inclusi – poveretti! – vadano inclusi, certo, ma senza chiedere loro come in realtà vogliano quell’inclusione; quindi si ritrovano a subirla, in un certo senso. Questo è il motivo per cui, così come Acanfora non parla di “inclusione” (ma parla di “convivenza delle differenze”), io preferisco parlare di “linguaggio ampio” e non di “linguaggio inclusivo”. Il linguaggio ampio, per me, è una visione linguistica che parte dal presupposto che siamo tutti, tutte, tutt* reciprocamente differenti e che una strada per la convivenza va cercata insieme. Quindi non io, “normale”, che, dopo averti escluso, impongo a te, persona “diversa”, un comportamento o anche una forma di re-inclusione. Ci deve essere una presa in carico della varietà umana come naturale e, di conseguenza, la ricerca di strade per la convivenza insieme, in cooperazione.

DSchwa, asterischi, desinenze in “u”, troncamento delle desinenze: negli ultimi anni parte della società civile sta adottando strategie comunicative sperimentali proprio col fine di non usare un linguaggio discriminatorio. Tuttavia, nel maggio del 2023, l’Accademia della Crusca si era detta contraria al loro utilizzo. Tu cosa ne pensi di tali stratagemmi? E credi che ce ne sarà uno dominante, che “vincerà” e diventerà norma?

R – Non posso prevedere se qualcuno di questi stratagemmi diventerà più comune di altri, anche perché il loro senso non è diventare comuni: è denunciare i limiti espressivi della lingua così com’è stata finora. E quindi, per esempio, lo schwa, la “u”, eccetera, hanno il preciso scopo di stare fuori dalla norma – di essere un dito in un occhio dal punto di vista linguistico –, non quello di diventare una nuova norma. Sono, per l’appunto, dei segnali per rendere visibile una distanza che, a mio avviso (e non solo mio), c’è in questo momento fra la norma linguistica e il mondo che la nostra lingua in qualche modo dovrebbe rispecchiare.

Rispetto al passato, sappiamo molto di più oggi della complessità umana, della complessità della dimensione del genere, dell’identità di genere, dell’orientamento sesso-affettivo, del sesso biologico perfino, e in questo momento la lingua molto spesso non riesce a dare conto di tutto ciò. Per esempio, in italiano non esiste una rappresentazione linguistica adeguata delle persone che sono fuori dal binarismo di genere (quindi delle persone non binarie o, in generale, gender-questioning): non c’è, ed è per questo che si va a pescare fuori dalla norma. Per far vedere, non per dare una soluzione.

Sulla questione dell’Accademia della Crusca mi vengono da dire alcune cose. La prima è che l’Accademia della Crusca non ha nessun compito prescrittivo, ma, casomai, descrittivo. Può dare dei consigli, ma in nessun caso le cose che dice andrebbero prese come la Cassazione della lingua, semplicemente perché non ha questo ruolo. Dopodiché, avendo lavorato a lungo alla Crusca, aggiungerei una seconda questione. Esistono accademici e accademiche della Crusca, che a volte sono più progressisti, a volte più conservatori, e tutto quello che la Crusca può fare è essere la riproduzione, la manifestazione di quel pensiero lì. Conosco la risposta di consulenza sullo schwa data da Paolo D’Achille, oggi presidente dell’Accademia della Crusca (all’epoca ancora non lo era). È una risposta circostanziata, documentata, che contiene alcune imprecisioni fattuali, ma comunque, in ogni caso, il fatto che Paolo D’Achille, per conto dell’Accademia della Crusca, si sia espresso in maniera critica rispetto al linguaggio ampio, nulla toglie all’importanza della questione e al fatto che, per fortuna, non sono le accademie a definire la lingua. La Crusca dà il suo parere, dopodiché i parlanti e le parlanti fanno un po’ quello che vogliono, ed è sempre stato così.

Per fortuna, in Italia non esiste un’accademia linguistica che abbia potere di prescrivere come si parla, ma anche nei Paesi in cui c’è (ad esempio in Francia, con l’Académie Française), alla fine le persone parlano come va a loro, non certo seguendo pedissequamente quello che l’accademia prescrive. E va benissimo così. La lingua ha la capacità di autoregolamentarsi e, quindi, alla fine si può ascoltare con interesse l’opinione, senz’altro competente, di un accademico della Crusca, ma questo non deve dettare legge. E, per fortuna, non lo fa.

DCi potresti fare qualche esempio concreto per evitare un linguaggio sessista (quindi, ad esempio, evitando il maschile sovraesteso) e discriminatorio delle identità di genere non conformi?

R – Non penso che il maschile sovraesteso sia di per sé sessista. Il maschile sovraesteso ha il difetto di qualsiasi altro automatismo linguistico, cioè creare una determinata narrazione della realtà e, magari, contribuire a tenere nascoste alcune altre parti della realtà stessa. Quindi non è che usare il maschile sovraesteso sia sessista, ma usarlo meno può essere una buona strategia per rendere più visibili gli altri generi. Anche io, a volte, utilizzo il maschile sovraesteso: cerco di farlo poco, soprattutto nei luoghi topici di un testo (per esempio, l’inizio e la fine) o non esordisco un discorso con “buonasera a tutti” (evitando anche “buonasera a tutte e tutti”, perché non risolve il problema), ma preferisco dire “buonasera” e basta o “buonasera alle persone presenti”.

DHai parlato spesso di come alcuni sostantivi, quando declinati al femminile, perdano la loro “autorevolezza”. Un esempio su tutti: “segretario”, al maschile, sta a indicare il capo di un partito politico, mentre “segretaria” ha tutt’altro significato. Di altri termini, invece, il femminile non esiste o non viene utilizzato. Perché ciò accade e cosa possiamo fare ogni giorno noi, persone parlanti, per ridare dignità a queste parole?

R – “Segretario” o “segretaria”, “maestro” o “maestra”, “direttore” o “direttrice”: ci sono diversi termini che al maschile sembrano più autorevoli che al femminile, ma è una questione di connotazione, cioè di una specie di aggiunta di significato che viene data a una parola a causa delle costrizioni sociali e culturali, più che linguistiche. Infatti, fra “segretario” e “segretaria”, secondo il vocabolario, non esiste alcuna differenza: la differenza ce la inseriamo noi, perché siamo figli e figlie, per l’appunto, di una cultura che è ancora profondamente sessista. E allora il modo migliore per evitare che termini come “segretaria” e “direttrice” e “maestra d’orchestra” suonino strani è quello di usarli, così il nostro cervello si abitua al fatto che anche in quei ruoli l’alternanza dei generi è perfettamente naturale. Dopodiché, c’è da vedere se il femminile di determinati sostantivi esista o meno.

Ci sono quattro categorie di sostantivi:

  1. i nomi di genere fisso, nei quali il maschile e femminile sono parole completamente diverse (tipo “madre” e “padre”, “fratello” e sorella”);
  2. i nomi di genere promiscuo, hanno solo un genere grammaticale che viene usato per tutti i generi semantici (quindi “vittima”, non c’è “il vittimo”; “pedone”, non c’è “la pedona”; “guardia”, non c’è “il guardio”; “sentinella”, non c’è “il sentinello”; “personaggio”, non c’è “la personaggia”);
  3. i nomi di genere comune, in cui il maschile e il femminile sono uguali e basta cambiare l’articolo e tutte le reggenze (degli esempi sono “atleta”, “psicoterapeuta”, “giornalista”, “presidente”, “gerente”, “insegnante”, “amante”, “preside”, “giudice”);
  4. i nomi di genere mobile, che effettivamente hanno un loro femminile declinato (quindi il modello “attore-attrice”, “incisore-incisora”, “istruttore-istruttrice”, “pastore-pastora”, “cameriere-cameriera” e “sindaco-sindaca”).

Quasi sempre i femminili dei sostantivi a genere mobile esistono già, basta andarli a cercare nel vocabolario. Nello Zingarelli ne sono elencati un migliaio a partire dal 1994: lì si trovano “agricoltrice”, “notaia”, ecc., anche quelli che sembrano più insoliti. Ecco, non è vero che i femminili non esistono: i femminili ci sono, in molti casi non vengono usati e non vengono usati correttamente.

DAnche in Italia, come già accade nei Paesi anglosassoni, diverse persone che non si riconoscono nel binarismo di genere chiedono che ci si rivolga a loro utilizzando i pronomi “They/them” (“loro”). Tuttavia, in una puntata del tuo podcast “Amare parole” spieghi quanto la traduzione in italiano sia complicata. Ci potresti spiegare meglio?

R – Non affermo che “loro” non sia la traduzione corretta, ma in italiano “loro” è un qualcosa di molto difficile da inserire nel contesto, mentre in inglese “they/them” veniva già usato prima in riferimento a una persona di cui non si conosce il genere. In italiano questa struttura non c’è, non è supportata, quindi usare “loro” allo stesso modo sarebbe molto difficile. Io preferisco “ləi”, che non è una traduzione. Del resto, l’italiano è una lingua con il genere grammaticale, mentre l’inglese è una lingua con il cosiddetto genere naturale, quindi per gli anglofoni effettivamente il problema di genere si manifesta solo con i pronomi. Sono proprio forme linguistiche differenti e forme linguistiche differenti spesso richiedono soluzioni linguistiche differenti. Al momento, un pronome standard privo di genere in italiano non esiste.